Pay or Consent

Un bivio (solo apparente) tra privacy e mercato

L’affermarsi dei modelli “consenso o pagamento” rappresenta uno snodo cruciale nel rapporto tra libertà individuale e logiche di mercato digitale. Dietro la formula apparentemente neutra del “acconsenti all’uso dei tuoi dati o paga per non essere profilato” si cela una tensione profonda: può la protezione dei dati diventare un bene negoziabile?

L’analisi giuridica della questione, alla luce del Regolamento (UE) 2016/679, porta a rispondere negativamente. Il consenso, per essere valido, deve essere libero, informato, specifico e inequivocabile.

La libertà presuppone la reale possibilità di scelta, ma quando l’alternativa al consenso è l’esclusione da un servizio dominante – leggasi: un social network, una piattaforma di comunicazione, un motore di ricerca - tale libertà si svuota di significato. Il corrispettivo economico non è una “scelta”, ma una barriera che sposta il diritto alla protezione dei dati dal piano dei diritti fondamentali a quello del potere d’acquisto.

La logica del “pay or consent” si fonda sull’assunto che i dati personali possano fungere da moneta di scambio. È un’impostazione economicista che tradisce lo spirito del GDPR, il quale non riconosce nei dati un valore di mercato, ma li tutela come estensione della persona. Trasformare la rinuncia alla riservatezza in una transazione significa ridurre l’identità digitale a merce, subordinando la dignità al profitto.

Vi è poi un problema di asimmetria strutturale tra utente e piattaforma. Le grandi piattaforme online detengono un potere di mercato tale da rendere illusoria qualsiasi autodeterminazione dell’utente. L’adesione al trattamento dei dati avviene spesso in condizioni di dipendenza funzionale - per motivi sociali, professionali o relazionali - che configurano uno squilibrio di potere incompatibile con la nozione di consenso libero. L’argomento trova eco anche nella giurisprudenza europea, che riconosce la necessità di offrire alternative realmente equivalenti per evitare la condizionalità dell’accesso al servizio.

Una possibile via d’equilibrio risiede proprio nel concetto di “alternativa equivalente”: una versione del servizio priva di pubblicità comportamentale, accessibile gratuitamente o mediante un modello meno invasivo del trattamento dei dati. Solo così il consenso può recuperare autenticità, cessando di essere una scelta forzata e tornando a essere espressione di volontà consapevole.

L’imposizione di un pagamento, al contrario, rischia di introdurre una discriminazione economica nella fruizione di diritti fondamentali: chi può pagare si sottrae alla profilazione, chi non può ne resta prigioniero. È una deriva che la logica del GDPR, basata su proporzionalità, minimizzazione e correttezza, intende prevenire. Il principio di responsabilizzazione impone ai titolari del trattamento di dimostrare non solo la liceità del consenso, ma anche la sua equità sostanziale.



In definitiva, i modelli “pay or consent” non rappresentano un vero bivio, ma una falsa alternativa. La libertà di scelta non può essere monetizzata, e il consenso estorto sotto minaccia economica è, nella sostanza, un consenso viziato. La sfida per le piattaforme digitali, e per i legislatori che le regolano, consiste nel conciliare sostenibilità economica e tutela della persona senza trasformare la privacy in un privilegio a pagamento. Solo così l’Europa potrà restare fedele alla propria visione: un mercato digitale che si fonda sui diritti, non che li mette in vendita.